«Ragazze, alzate la voce»
Vorrebbero suonare sexy ma sembrano sull’orlo di una crisi respiratoria, c’è un’epidemia vocale tra le ventenni americane. Si chiama «vocal fry», è quell’increspatura calante della voce che chiude le frasi con apparente noncuranza, ingoiando le parole in un rantolo più o meno controllato. L’arrochimento che doveva salvarci dai picchi striduli, l’abbassamento di tono mutuato dalla lirica e dal blues per ottenere modulazioni morbide e piene della voce, ha creato un manierismo finito al centro del dibattito estivo tra States e Regno Unito. E la generazione più autoconsapevole della Storia — attrici, cantanti, giovani donne in corsa — inciampa in un vezzo gutturale che per esperti e femministe esprime remissività, resa, insicurezza. Come se rifugiarsi nel «vocal fry» fosse un modo per scivolare via in un unico soffio di fiato.
Tutta colpa del patriarcato, sostiene il peso massimo del femminismo di terza generazione Naomi Wolf, di quel complesso sistema sociale che alle vecchie catene dell’ideologia sostituisce nuove insidiose pressioni culturali «per impedirci di andare troppo lontano e troppo in fretta». Ammiccante, infantile, vagamente laconica e distante anni luce dal vellutato sussurro alla Marilyn Monroe, l’ultima forma di omologazione sembra fatta apposta per depotenziare il messaggio e marginalizzare chi lo pronuncia. Effetto Britney Spears. In Rete circolano montaggi con spezzoni di film e programmi tv che mostrano le ignare vittime del «vocal fry», stelle in ascesa come Zooey Deschanel o affermate come Katy Perry, Kim Kardashian, Lady Gaga, Emma Stone e Scarlett Johansson. Nell’elenco c’è persino la candidata alla nomination democratica Hillary Clinton: nei suoi ultimi discorsi sono state riscontrate preoccupanti analogie con inflessioni di pop star e celebrità; altro che scandalo delle email, sulla via per la Casa Bianca c’è lo spettro di Paris Hilton.
Il capriccio nella voce può funzionare in brevi parentesi di commedie patinate ma alla lunga, nella vita vera, diventa insopportabile. La rivista americana Time cita uno studio della prestigiosa Duke University secondo il quale il «vocal fry» è percepito come segno di scarsa competenza e affidabilità, di fatto un grave ostacolo alla crescita professionale in un mondo ancora dominato dagli uomini che, a giudicare dalla valanga di post e commenti sul tema, non apprezzano molto il graffio.
«Ragazze, alzate la voce» scrive Wolf. Nello studio come nel lavoro il problema delle giovani generazioni resta la difficoltà di prendere la parola e mantenere — sopportare — l’attenzione. Ottenere visibilità e spezzare il silenzio di fronte all’abuso, all’ingiustizia, alla discriminazione in tutte le sue declinazioni. «Lo stile è il contenuto» e la voce diventa strumento politico. Non basta sapere di poter fare grandi cose, occorre sapersi auto-promuovere senza stucchevoli finzioni, liberarsi di quell’esitazione della voce e del pensiero. Prima di diventare la Lady di Ferro, Margaret Thatcher studiò impostazione vocale — ma niente eccessi, per essere padrone del proprio destino non bisogna forgiarsi nell’acciaio, anche la morbidezza è una conquista.
Amplificato dalle sonorità della lingua inglese, il «vocal fry» è piuttosto comune anche da noi, nella forma di un’attitudine strascicata e auto-compiaciuta che non è proprio monopolio femminile.
Su certe sottigliezze però gli uomini sorvolano, impermeabili alle critiche. Forse la strada della vera parità passa anche dal diritto di scegliere la moda sbagliata, per continuare a cercare la propria voce, unica e irripetibile.
non è questione di mode, se uno vuol parlare con un sussurro finale mutuato dal blues lo può fare..e non vuol dure essere remissivi. Una donna (e anche un uomo) può usare il vocal fry, così come può essere sensuale se vuole, ed essere forte e assertiva
Comunque un uomo può sussurrare o alzare la voce, nessuno lo giudica mentre una donna è sempre sotto esame, questo è sbagliato